Test, tamponi e vaccino. Risposte alle 8 domande più ricorrenti

Visto che i nostri governanti, nazionali e regionali, stanno preannunciando obblighi per la prossima stagione, è bene poter usufruire di maggiori informazioni documentate che permettano di farsi un’idea più chiara su alcuni importanti questioni.

Ho selezionato otto domande, con le relative risposte, dall’ampia e interessante analisi dell’attuale epidemia da parte del Prof. Marco Mamone Capria, Matematico ed Epistemologo presso l’Università di Perugia. 

L’analisi è stata pubblicata ieri, 4 luglio, da AURET (Associazione Autismo Ricerca e Terapie). Ho reso il pdf linkabile a fine post così, chi è interessato ad approfondire ulteriormente, può leggerla per intero completa dei necessari riferimenti.

 

1. È vero che se si è positivi al test per il cov-2, allora si è stati infettati da questo virus?

Risultare positivi a un test per una certa infezione non è lo stesso che essere infetti. Tutto dipende da quanto discriminante sia il test. Un test ha certi parametri che ne definiscono la qualità conoscitiva:

– la proporzione dei positivi tra gli infetti (si dice sensibilità),

– la proporzione di negativi tra i sani (si dice specificità),

– e i valori predittivi, quello positivo, che dice quanto probabile è che se sei positivo tu sia infetto, e quello negativo, che dice quanto probabile è che se sei negativo allora tu sia sano.

Meno specifico è un certo test (e la specificità ha un aspetto intrinseco al test, comprese eventuali contaminazioni del kit, e uno relativo alla correttezza dell’esecuzione del test), più numerose sono le persone perfettamente sane, o almeno senza la malattia ricercata, che vengono ad essere classificate, per esempio, come “siero-positive” se si tratta di un test sierologico, o “tamponepositive” se, come nel caso del covid-19, si tratta (come per lo più finora) di un tampone rinofaringeo.

Facciamo un esempio numerico. Se il test ha una specificità del 95%, allora su 100.000 persone sane sottoposte al test, 5000 risulteranno positive anche se, appunto, non sono infette. Inoltre, con la stessa specificità, se su 100 persone sane eseguo il test 3 volte per ognuna, ce ne saranno 14 che risulteranno positive almeno una volta. (Questo, naturalmente, nell’ipotesi ottimistica che l’esecuzione del test non alteri lo stato di salute della persona, il che non sarebbe vero se il test stesso fosse contaminato).

Per esempio, recentemente è apparsa una notizia secondo cui un uomo di 41 anni, cui era stata diagnosticata una polmonite bilaterale (una malattia con prognosi infausta nel 60% dei casi), era stato sottoposto al tampone, con esito negativo; un secondo tampone, in un altro ospedale in cui era stato trasferito, aveva dato pure esito negativo. Allora è stato fatto tornare a casa, ma le sue condizioni si sono aggravate ed è morto. Dopo il decesso gli è stato fatto un terzo tampone, e questo è risultato positivo. L’articolo da cui ho tratto questa cronaca conclude: «Il tampone fatto dopo la morte ha confermato che la polmonite bilaterale era stata una conseguenza del Covid-19» Alla luce di quanto visto, un minimo di cautela sarebbe doveroso.

Una volta che si è classificati “positivi”, si può essere sani quanto si vuole, o avere un disturbo lieve e passeggero, ma per le statistiche sanitarie (e anche in tutta una serie di contesti sociali) si è “infetti”. 

Vedere in questi mesi tanti personaggi pubblici che si sono sottoposti al tampone accettando senza obiezioni l’esito (positivo o negativo che sia, beninteso), e tanti intellettuali dar credito all’identificazione tra “positivo”e “infetto” dà un’idea di quale sia il livello della cultura scientifica media. E anche questa può essere tra le ragioni per cui in certi paesi dell’UE ci sono meno “contagiati” che in Italia: si sono fatti meno test (in rapporto alla popolazione).

 

2. Prima di introdurre questo test a livello internazionale ed effettuarlo su masse di persone è stato verificato che aveva buoni valori predittivi?

Purtroppo no. In uno studio cinese effettuato quando ormai il “tampone” era diventato il test più utilizzato a livello internazionale, e accettato dopo “peer review”, si è trovato che su un certo campione l’80,33% dei positivi non erano in realtà infetti. Cioè un valore predittivo positivo davvero misero: il 19,67% . Dopo un’analisi statistica dei dati, gli autori hanno concluso che tra le persone entrate in contatto stretto con cov-2-positivi, il 47% o più degli asintomatici sarebbero falsi positivi: cioè risultano positivi al test ma non sono infetti.

Se queste stime sono attendibili, fare il tampone “a tappeto” sarebbe una ricetta ideale per creare panico ingiustificato, perché molti “positivi” sarebbero inutilmente e dannosamente spaventati e isolati. Inoltre, senza questa consapevolezza, si dovrebbe anche ammettere che il tasso di mortalità della cov-2-positività (valutata con i test attualmente in uso) è molto basso, al contrario delle stime apocalittiche che si sono fatte circolare.

Di fatto ambedue le cose potrebbero essere vere:

1) molti falsi positivi con i test in uso, compresi decessi falsamente attribuiti al covid-19 in base alle indicazioni ministeriali (con o senza tampone!);

2) pochi veri positivi con decorsi gravi o fatali.

Quindi: sia le dimensioni del fenomeno epidemico sia la letalità della malattia potrebbero essere state entrambe sopravvalutate – e si tratta di sopravvalutazioni con gravissime conseguenze sociali e sulle politiche sanitarie.

L’articolo cinese citato non è mai stato ripubblicato in inglese, e nel suo riassunto in inglese su PubMed è qualificato come “Withdrawn” (ritirato); in un inglese poco chiaro sembra che si dica che la ragione sarebbero le obiezioni dei lettori all’insufficiente base epidemiologica. Non è chiaro però che siano gli autori, di comune accordo, ad averlo ritrattato. La ragione della ritrattazione è stata definita dall’autore “anziano” dell’articolo come «una questione sensibile». Se un articolo contiene un errore, non si capisce perché ci si dovrebbe esprimere in una forma così sibillina al momento di ritirarlo.

Chiaramente quando si dice che le metodiche di accertamento dell’infezione possono amplificare la stima e quindi la percezione della frazione infetta della popolazione non si presuppone un’intenzione di fuorviare l’opinione pubblica e la classe politica da parte di chi ha sviluppato quelle metodiche. È nella natura degli screening (cioè indagini su parametri fisiologici in vaste masse di individui) che errori del genere si verifichino, sia per difetti nell’esecuzione del test, sia per difetti dei materiali con cui lo si effettua.

 

3. Il test del tampone ha caratteristiche che lo rendono poco affidabile?

Sì. In generale, come fu sottolineato già da Kary Mullis, lo scienziato che vinse il premio Nobel per la chimica proprio per la scoperta della PCR (= reazione a catena di polimerasi), questa procedura – che nel caso dei virus deve essere preceduta dalla “trascrizione inversa” (RT) che traduce i frammenti di RNA in frammenti di DNA (ecco perché nel caso del tampone per il cov-2 si parla di metodo “RT-PCR”) – non può da sola sostenere una diagnosi di infezione. 

Una ragione di ciò è che la PCR moltiplica anche frammenti inattivi e residuali dell’RNA di un virus e non permette di distinguere tra un individuo con un’infezione in corso e uno che ne è guarito, ma che conserva ancora tracce della precedente infezione che né gli danno sintomi, né possono contagiare nessuno. Questo vale anche se il virus è stato sequenziato correttamente, e in maniera tale da distinguerlo da altri, cosa che non vale per il cov-2: quindi letteralmente non si può dire quali virus abbiano infettato, ammesso che ce ne siano, chi risulta positivo. È un difetto enorme dell’intera strategia con cui si è affrontata la crisi covid-19, ma a quanto pare le autorità sanitarie non se ne sono date e non se ne danno pensiero.

 

4. Che differenza c’è tra il tampone e il test sierologico?

Il tampone lo si fa per accertare l’infezione in atto; il test sierologico (o test degli anticorpi) determina se un certo individuo è entrato in contatto con il cov-2. Se sì, nel suo siero si dovrebbero trovare anticorpi, le immunoglobuline IgM e IgG: le prime si formano dopo una decina di giorni dall’infezione, le seconde dopo circa due settimane e rimangono anche per un certo periodo dopo che si è guariti. I test sierologici hanno quindi lo scopo di stimare la percentuale della popolazione che sono stati infettati, non la contagiosità.

Anche se di questi test (sviluppati molto in fretta) i produttori affermano che hanno specificità superiore al 95%, la sensibilità è spesso molto più bassa, e di solito è di questo che gli autori sulle riviste mediche si lamentano, perché ridimensionerebbe la porzione di popolazione raggiunta dall’infezione. 

Ultimamente l’autorità statunitense in materia, i CDC, ha diffuso un comunicato mettendo in guardia circa la sovrastima del potere predittivo dei test sierologici. Come sappiamo, a parità di sensibilità e specificità, il potere predittivo dipende dalla prevalenza, e quando questa è bassa tali test indicano la presenza di anticorpi là dove non ci sono, trasmettendo quindi una “falsa sicurezza” (nella letteratura non si trovano mai critiche della “falsa insicurezza”, che dovrebbe essere almeno altrettanto oggetto di preoccupazione). Bisogna anche dire che, a combattere la “falsa sicurezza” dei test sierologici è stato precisato che non è noto quale sia la durata della protezione che conferiscono.

 

5. Esiste un test sicuro del covid-19 – un test “di paragone” per misurare l’affidabilità di ogni altro test?

È ciò che si dice un canone aureo (gold standard). La risposta è: no. In pratica si utilizza il tampone “a ripetizione”, ma abbiamo già visto che sopravvaluta i positivi.

Il 17 giugno l’OMS ha rilasciato nuove regole per togliere l’isolamento a infetti da cov-2: «per i pazienti sintomatici: 10 giorni dopo l’inizio dei sintomi, più almeno 3 giorni in più senza sintomi (che include senza febbre e senza sintomi respiratori); per i casi asintomatici: 10 giorni dopo un test positivo per il SARS-CoV-2»

In altre parole: si permette di esentare dall’isolamento sulla base di criteri clinici, e senza il doppio test negativo del tampone a distanza di almeno 24 ore, che era la regola precedente. Perché questa regola è stata abbandonata? Ecco la risposta: «Con larga trasmissione nella comunità, gli iniziali criteri per SARS-CoV-2 ponevano diverse sfide:

– Lunghi periodi di isolamento per individui con prolungata rilevazione dell’RNA virale dopo la risoluzione dei sintomi, che influenzava il benessere individuale, la società e l’accesso all’assistenza sanitaria.

– Insufficiente capacità di eseguire test per soddisfare gli iniziali criteri per la dimissione in molte parti del mondo.

– Prolungata presenza virale nei campioni clinici (“viral shedding”) intorno al limite di rilevamento, avere risultati negativi seguiti da risultati positivi, che senza necessità mette in crisi la fiducia nel sistema di laboratorio.»

È la prima volta (a quanto ne so) che si ammette che il criterio del doppio tampone negativo crea non solo problemi di gestione, ma risultati incoerenti e disagio tra le persone falsamente positive, che sono costrette all’isolamento per lunghi periodi senza avere alcun sintomo. 

Un esempio da primato è quello del primo “malato di covid-19” di Bologna, Bianca Dobroiu, 22 anni, positiva e con sintomi blandi, spariti dopo quattro giorni di terapia sintomatica, ma che ha continuato ad essere positiva per due mesi e mezzo. Ecco la sua testimonianza quando finalmente si è verificato il doppio tampone negativo: «74 giorni, due mesi e mezzo chiusa in camera, due mesi e mezzo di ansie e stress, due mesi e mezzo di medici, di prelievi del sangue costanti, di tamponi, di risultati che mi tiravano giù ogni giorno di più. Sono stati due mesi di inferno, e so che non tutti capiranno, ma io che l’ho vissuta in prima persona, vi posso solo dire che sono due mesi che hanno segnato tanto la mia vita. Due mesi che son sembrati anni, due mesi e mezzo infiniti.»

Non mi risultano statistiche su casi analoghi a questo, magari di durata inferiore, che però rendono evidente e concreto il danno esistenziale causato dall’uso di un test difettoso per decidere del destino delle persone.

Paradossalmente, a favore della campagna per effettuare più tamponi militano due opinioni mosse da aspirazioni contrastanti, ma che condividono il punto di partenza (corretto): più tamponi si fanno, maggiore è il numero dei positivi. Gli uni ne deducono: minore è la stima della letalità del covid-19, meno deve preoccuparsi l’individuo colpito. Gli altri invece sottolineano: più diffuso è il covid-19, più devono preoccuparsi le autorità sanitarie. Letalità bassa con alta diffusione dell’infezione significa lo stesso un’alta mortalità a livello di popolazione, e quindi anche se ogni singolo individuo malato ha meno ragioni di preoccuparsi, le autorità sanitarie sono giustificate a prendere provvedimenti. Insomma chi si consola troppo facilmente sulla base del fatto che “la letalità è bassa”, non ha capito la logica della situazione e le conseguenze di politica sanitaria del “fare tamponi a tappeto”.

 

6. È vero, come molti stanno affermando in queste settimane, che dall’epidemia di covid-19 si uscirà veramente solo quando avremo un vaccino e che, fino ad allora, è inevitabile il prolungamento delle misure di distanziamento sociale? 

No. La domanda presuppone che la similinfluenza positiva al test per il cov-2 non abbia l’evoluzione comune alle altre similinfluenze, con il tipico andamento a campana, ma, dopo l’abbassamento generale dell’intensità di tutte le similinfluenze “riprenda la volata”, per usare un termine ciclistico, cioè ricominci ad aumentare – e solo lei! 

A tale proposito è stato anche sollevato il dubbio che chi guarisce dal covid-19 (nel senso tecnico di diventare negativo al test) non sia perciò diventato immune alla malattia, e possa riprendersela se esposto. Ma se ciò fosse vero, come pensare che la stimolazione attenuata del sistema immunitario prodotta da un vaccino possa produrre ciò di cui sarebbe incapace anche la malattia vera e propria, cioè l’immunità alla malattia? Chi vuole terrorizzare la cittadinanza per prepararla alla resa incondizionata a una nuova vaccinazione di massa dovrebbe fare uno sforzo di coerenza, se non vuole abusare della pazienza della parte pensante della popolazione. 

Se invece essere guariti dal covid-19 dà immunità, si dovrebbe concludere che le misure di distanziamento sociale universali (cioè non limitate alle categorie degli individui più anziani e/o con stato di salute più precario) potrebbero aver ritardato il raggiungimento della immunità di gregge naturale (cioè provocata dalle guarigioni). Non che questa decisione (“appiattire” la curva dell’incidenza) fosse del tutto irrazionale nel momento in cui le strutture sanitarie erano in affanno, sia per i loro limiti sia per il panico diffuso tra i cittadini. Ma allora, come abbiamo visto, il prolungamento dell’epidemia derivante da tale decisione è da contare come un altro dei costi che la cittadinanza ha dovuto pagare per la politica di definanziamento della sanità e di allarmismo sanitario. 

Sulla questione, fondamentale, della creazione di immunità torneremo, ma abbiamo già detto di un esperimento coreano in cui ben 263 pazienti guariti dalla malattia sembrava che se la fossero ripresa, risultato che era stato interpretato come una pietra tombale sull’ipotesi che i guariti dal covid-19 fossero naturalmente immunizzati. In realtà la ripetizione dei tamponi aveva dato tutti falsi positivi, come già spiegato. 

Un’altra ipotesi è che il cov-2 muti rapidamente, forse anche più dei virus influenzali che, proprio per questo, costringono a ridisegnare (con risultati variabili e generalmente non eccellenti) il vaccino antinfluenzale anno per anno. Se così fosse, l’obiettivo “vaccino” potrebbe non essere, anche se raggiunto, risolutivo. Chi ha annotato negli ultimi trent’anni gli annunci, sempre rinnovati e sempre fallaci, che i ricercatori biotecnologici sarebbero stati “a un passo” dal completamento di un vaccino anti-HIV, sa quanto può essere lungo quell’ultimo “passo”, e non darà credito alle promesse di un “vaccino dietro l’angolo” nemmeno in questo caso. 

Ma c’è un esempio più simile a quello del covid-19, e del quale i principali media parlano il meno possibile, anche perché riguarda una malattia che si conosce non da un anno ma da millenni, e si ritiene che derivi anche da (altri) coronavirus: il raffreddore. Ebbene, non esiste un vaccino contro il raffreddore, nonostante lo si ricerchi da almeno un secolo. 

 

7. Perché si invoca il vaccino come la soluzione definitiva del problema covid-19? 

Ci sono evidentemente interessi economici più che ragguardevoli, e c’è anche una prospettiva politica autoritaria che in generale si accorda molto bene con le campagne vaccinali di massa, poiché considera i cittadini pressappoco come un allevatore considera i capi di bestiame. 

Per quanto riguarda i profitti delle industrie farmaceutiche, è chiaro che vendere centinaia di milioni di dosi di vaccino in tutto il mondo a governi che saranno per ciò stesso coinvolti nella pubblicizzazione e somministrazione di questo medicinale, e che si assumeranno per giunta l’impegno di indennizzare i cittadini per eventuali gravi reazioni avverse (da negare ad oltranza anche per questo), è un enorme affare. 

Se ci si aggiunge che i governi saranno spesso disponibili (in Italia lo abbiamo visto nella forma più sconcertante nel 2017) a introdurre forme di obbligo vaccinale che nascondono la violazione di diritti costituzionali sotto ricatti pecuniari (multe), sociali (divieto di accesso a certe strutture pubbliche) o lavorativi (divieto di svolgere certe mansioni), ecco che ci troviamo davanti a un’immensa macchina del profitto con rischi d’impresa molto ridotti. 

Per rendersi conto che queste non sono considerazioni teoriche, bastava leggere il 24 maggio che «questa settimana il gigante farmaceutico AstraZeneca ha annunciato un contratto da 1,2 miliardi di dollari con il governo USA per produrre 400 milioni di dosi del non provato vaccino» del Prof. A. Hill di Oxford, e che «intanto il governo britannico ha convenuto di pagare fino a 100 milioni di dosi, aggiungendo che 30 milioni di dosi potrebbero essere pronte per i cittadini inglesi già a settembre». Queste cifre, del resto molto parziali, danno però un’idea del volume di affari prevedibile per un vaccino destinato letteralmente a tutto il mondo – e indicano anche quale credito dare a quegli opinionisti che trattano la produzione dei vaccini come una specie di pratica di beneficenza dell’industria farmaceutica. 

 

8. Il vaccino che è stato prenotato dal governo italiano che credenziali di efficacia e sicurezza ha? 

Nessuna. Come al solito il vaccino è stato provato su “modelli animali”, che in questo caso sono stati topi e macachi Rhesus adulti. 

Nei topi si è riscontrata una «risposta immunogenica». 

Dei macachi, 6 sono stati vaccinati, 3 no, e tutt’e 9 sono stati poi infettati con cov-2. Sono stati tenuti in osservazione per una settimana e poi sono stati tutti uccisi. I macachi hanno tutti mostrato sintomi di infezione, ma in quelli vaccinati si sarebbe osservato un «carico virale significativamente ridotto», e gli autori sottolineano che «non ci sono prove di una malattia immuno-potenziata negli animali vaccinati in seguito all’infezione di provocazione». (Cioè la vaccinazione non avrebbe peggiorato la malattia nei macachi vaccinati, che comunque se la sono presa). Aggiungono che il vaccino è «attualmente investigato in una prova clinica di fase I» (cioè su volontari sani). Inoltre ammettono, da un lato, che «i macachi non sono molto suscettibili alle forme gravi della malattia», e dall’altro che non c’è ragione di pensare che i macachi vaccinati non siano infettivi (N.B.: una delle ragioni fondamentali per vaccinare è non propagare il contagio!). 

Che cosa si ricava da questo rapporto? In breve: il vaccino non ha funzionato nemmeno sui poveri macachi (replica degli autori: sì, ma noi abbiamo esposto i macachi a una dose esagerata di virus…). Ma questo non aveva in realtà alcuna importanza, né in linea di principio né in pratica, visto che si era già passati alle prove su esseri umani. (Come accade spesso, in barba alla pretesa che la sperimentazione animale funga da filtro e difesa delle cavie umane: una delle “fake news” più usurate, ma che non sarà mai smentita in un telegiornale). 

Naturalmente di questo e altro si sono accorti subito i commentatori competenti. Il campione su cui si è fatto l’esperimento è troppo piccolo per dare risultati affidabili. Il carico virale nelle secrezioni nasali dei macachi vaccinati e di quelli non vaccinati era lo stesso. I titoli anticorpali nei macachi vaccinati erano bassi, e si sa che, anche quando sono alti, possono essere di breve durata. Il fatto che la vaccinazione non peggiorò i sintomi nei macachi vaccinati potrebbe non applicarsi agli umani, come già si è visto per altri vaccini. È solo una parte della lista dei difetti, ma l’ultimo contiene il più forte di tutti: quella dei “modelli animali” è una truffa pseudoscientifica che serve per costruire carriere e far lucrare le industrie farmaceutiche sulla base di false rassicurazioni. Se l’esperimento sul macaco ha successo, allora si predice che lo stesso avverrà sugli umani, perché “macachi e umani sono simili”; se non ha successo, allora potrebbe averlo sugli umani, perché “macachi e umani sono differenti”. Nessuno realmente crede a questo gioco delle tre carte, come indicato, tra l’altro, dal fatto che si avviano esperimenti su animali e prove cliniche in parallelo. Ma è una strategia che “funziona”, e in molti modi. In particolare, dal punto di vista dell’industria farmaceutica, l’esito fallimentare dell’esperimento sui macachi non ha compromesso il futuro commerciale del vaccino. 

Adesso due parole sulla cronologia, che getta un po’ di luce sulla vicenda. 

Il vaccino di Oxford non era il primo. Il 19 aprile un gruppo cinese (della Sinovac Biotech, Pechino) diffonde un articolo (in forma di prepubblicazione) in cui afferma che il proprio vaccino «conferisce completa protezione» alle scimmie (sono stati utilizzati 20 macachi Rhesus). Naturalmente ammettono che «è ancora troppo presto per definire il miglior modello animale per lo studio delle infezioni con SARS-CoV-2». Così è se vi pare. 

Il giorno dopo il gruppo di Oxford tiene una conferenza stampa per dire che anche il loro vaccino funziona. Il loro articolo appare però (sempre come prepubblicazione) quasi un mese dopo: il 13 maggio. Il 16 maggio appare una critica demolitrice. Il 24 maggio il gruppo di Oxford dice che la minaccia del cov-2 per la popolazione è ormai agli sgoccioli e che non si sa che valore possano avere i test clinici visto che i soggetti vaccinati non incontreranno facilmente persone infette. Il 13 giugno il ministro della Salute italiano annuncia l’acquisto di 30 milioni di dosi del vaccino di Oxford. 

Il ministro Speranza e i suoi consulenti scientifici saranno mai richiesti di chiarire pubblicamente la linea logica (se ce n’è una) che hanno seguito impegnando una tale somma di denaro dei contribuenti in questo modo?

 

PER LEGGERE L’ANALISI COMPLETA DEL PROF MARCO MAMONE CAPRIA “Coronavirus, disinformazione e democrazia. Che cosa sta succedendo in Italia da un punto di vista sanitario?” 

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