La dittatura del tampone. E c’è chi, dopo, perde il liquido cerebrospinale.

Certamente si tratta di un caso particolare ed eccezionale, ma la conclusione cui sono giunti i medici deve invitare ad una riflessione profonda. 

La vicenda – resa nota dalla rivista scientifica specializzata JAMA Otolaryngology Head and Beck Surgery lo scorso 1° ottobre – è quella di una donna che a seguito di un tampone nasale per Covid-19 ha riportato un danno a strutture encefaliche con conseguente perdita di liquido cerebrospinale, quello per intendersi che protegge le delicate strutture del sistema nervoso centrale oltre a esplicare altre importanti funzioni.

 

La donna è una quarantenne che vent’anni fa è stata operata a causa di alcuni polipi nasali e che di recente ha dovuto effettuare il test COVID-19 nasale prima di un intervento chirurgico per un’ernia. In seguito all’effettuazione del tampone nasale, però, ha avuto dei disturbi (rinorrea unilaterale, sapore metallico, mal di testa, rigidità del collo, nausea, vomito e fotofobia) e, quando si è presentata  all’esame dei medici, questi hanno subito riscontrato la fuoriuscita di un fluido chiaro dalla narice destra. 

Successivamente un’indagine più approfondita ha evidenziato la presenza di un encefalocele, vale a dire ‘la protrusione di tessuto cerebrale e meningeo a causa di una malformazione congenita del cranio conseguente ad una incompleta chiusura della volta cranica’. 

Dal confronto con una TAC precedente, risalente al 2017, i dottori hanno potuto appurare che l’encefalocele della donna all’epoca risultava già presente (trattandosi appunto di malformazione congenita), ma l’effettuazione del tampone ha determinato un severo trauma dello stesso con conseguente perdita del liquido cerebrospinale.

 

 “Questo caso di fuoriuscita di liquido cerebrospinale iatrogeno dal test con tampone nasale per COVID-19 illustra che un precedente intervento chirurgico, o patologia che distorce la normale anatomia nasale, può aumentare il rischio di eventi avversi associati ai test nasali per i patogeni respiratori, incluso COVID-19”hanno concluso e scritto i medici“Si dovrebbero prendere in considerazione metodi alternativi allo screening nasale in pazienti con pregressi difetti della base cranica, anamnesi di chirurgia del seno o della base cranica, o condizioni predisponenti all’erosione della base cranica”. Infine gli stessi raccomandano al personale sanitario di fare attenzione nell’utilizzo dei tamponi nasali e nasofaringei e di formarsi adeguatamente per eseguire in sicurezza i test con un corretto movimento: “Con l’aumentare del numero di procedure giornaliere di raccolta dei campioni di tamponi nasali e nasofaringei COVID-19, viene posto un onere maggiore sul sistema sanitario per addestrare adeguatamente i medici e persino il pubblico in generale a eseguire in sicurezza i test con tampone nasale e nasofaringeo. Sono disponibili istruzioni di alta qualità su come ottenere correttamente un campione nasofaringeo adeguato per il test. Tuttavia, possono ancora verificarsi eventi avversi a causa dell’anatomia complessa e delicata”.

 

Mi vorrei innanzitutto soffermare su questo passaggio: “Si dovrebbero prendere in considerazione metodi alternativi allo screening nasale in pazienti con pregressi difetti della base cranica, anamnesi di chirurgia del seno o della base cranica, o condizioni predisponenti all’erosione della base cranica”.

Che cosa ne possono sapere i soggetti che effettuano il tampone circa la preesistenza di queste condizioni predisponenti? 

Quanto e come vengono verificate le situazioni soggettive (a maggior ragione se si parla di bambini) per escludere i fattori di rischio citati nell’articolo? 

La donna di cui parla l’articolo di Jama ignorava di avere una malformazione congenita del cranio, anche altre persone potrebbero esserne all’oscuro. 

C’è poi l’ultima frase che è degna di considerazione: “Possono verificarsi eventi avversi a causa dell’anatomia complessa e delicata”. Appunto, si tratta comunque di una parte del corpo complessa e delicata, a maggior ragione se parliamo di bambini.

 

In questo periodo stiamo assistendo ad un aumento esponenziale del numero di procedure giornaliere di raccolta dei campioni di tamponi nasali e nasofaringei COVID-19 sia per quanto riguarda gli adulti che i bambini. 

Sta diventando quasi una routine in molte città del mondo: per i ricoveri ospedalieri, prima degli interventi chirurgici, per individui con sintomatologia respiratoria sospetta ma anche lievemente sfumata. 

La FIMP (Federazione Italiana Medici Pediatri) ha indicato ai propri iscritti quali sono i sintomi che fanno scattare la richiesta di tampone, anche se presenti in forma isolata: febbre superiore a 37,5, tosse, mal di testa, nausea, vomito, diarrea, mal di gola, difficoltà respiratorie, dolori muscolari, naso chiuso o “naso che cola”. 

Praticamente tutti i sintomi che possono normalmente presentare i bambini quando non stanno bene. Dunque tampone sempre. 

Quali sarebbero, infatti, a questo punto secondo la FIMP, i sintomi non compatibili con Covid, per i quali il pediatra può evitare di richiedere il tampone?  

 

E visto che il tampone va sempre fatto e sempre di più se ne fanno, tutti i medici e gli infermieri sono adeguatamente addestrati per eseguire tale test in sicurezza? 

Evidentemente no se, come ha segnalato il Prof. Gian Vincenzo Zuccotti, direttore della Clinica pediatrica dell’ospedale Buzzi di Milano, a pochi giorni dalla riapertura delle scuole si sono verificati diversi casi di lesioni in naso e gola.  

E, oltre alle lesioni fisiche, vi è una crescente preoccupazione per l’impatto psicologico dei test regolari. Il professor Zuccotti, infatti, ha avvertito che il tampone potrebbe causare gravi traumi psicologici nei bambini che inizierebbero ad associare l’ambiente scolastico alla “tortura” del tampone. “Non possiamo sottoporre i bambini a test continui per farci sentire a nostro agio” – ha detto – “ Li stiamo traumatizzando “.

 

Nei giorni scorsi è arrivata anche la lettera-testimonianza di Filippo Festini, già Professore associato di Scienze Infermieristiche generali, cliniche e pediatriche presso l’Università degli Studi di Firenze e che da quasi trenta anni svolge attività clinica di infermiere esclusivamente in ambito pediatrico. 

È un documento che merita sicuramente considerazione perché proviene da qualcuno che negli ultimi tempi sta svolgendo la propria attività clinica proprio all’interno di un punto prelievo drive-through per l’esecuzione dei tamponi nasali e orofaringei per il Covid-19.

Ne riporto i punti salienti:

 

“Negli ultimi giorni sono rimasto sconcertato dal numero sorprendentemente alto di tamponi che vengono prescritti dai pediatri di libera scelta su bambini di ogni età.

Ciò che mi ha sorpreso in primo luogo è che nessun genitore – e sottolineo, nessuno, su centinaia di tamponi che ho eseguito – ha ricevuto informazioni sui concreti rischi operativi intrinseci alle procedure del tampone rino- e oro-faringeo per i bambini al di sotto dei 4-5 anni, cioè in quella fascia d’età in cui il bambino è oppositivo e non collaborativo nei confronti di qualsiasi procedura invasiva. Tali rischi, ben noti, attuali e non semplicemente teorici, sono i seguenti:

  • Rischio di rottura del tampone e conseguente inalazione. I normali tamponi in commercio sono provvisti di un punto di rottura progettato perché l’operatore possa spezzare il bastoncino dopo il prelievo ed inserirlo nella provetta per l’invio in laboratorio. Molti colleghi hanno già riportato casi di tamponi che si sono rotti nel cavo orale di bambini non collaboranti a causa della loro ovvia oppositività. La stampa internazionale ha recentemente riportato il caso di un bambino deceduto a seguito delle procedure necessarie alla rimozione di un pezzo di tampone inalato e rimasto bloccato nelle vie respiratorie.
  • Rischio di lesioni alla mucosa nasale, orale e faringea. Anche in questo caso, molti colleghi infermieri, ma anche la stampa nazionale, hanno riportato moltissimi casi di bambini oppositivi o non collaboranti che hanno riportato lesioni alle mucose durante l’esecuzione del tampone. Ovviamente tali lesioni rappresentano dei loci minoris resistentiae per altre infezioni delle vie respiratorie potenzialmente gravi. Nei giorni scorsi la stampa internazionale ha riportato il caso di un neonato deceduto a seguito di un sanguinamento inapparente causato dall’esecuzione del tampone.
  • Il trauma psicologico per il bambino e l’allarme sociale causato alle famiglie (che nella quasi totalità dei casi risulta poi infondato…). In questi casi non si tratta per la verità di rischi: questi due eventi si verificano immancabilmente nella totalità dei casi. La letteratura sui danni, talora a lungo termine, provocati dal trauma psicologico da procedura nei bambini prescolari è così vasta e nota che è superfluo citarla. Inoltre, è noto che il tampone nasofaringeo o orofaringeo è una delle poche procedure invasive per le quali non esistono tecniche cognitivo-comportamentali o farmacologiche locali efficaci a ridurre la paura ed il dolore nel bambino che vi si sottopone.

Quando, come è mio dovere professionale e deontologico, spiego ai genitori i rischi della procedura sopra descritti, essi invariabilmente mi riferiscono di non esserne stati informati dai PLS e di non aver avuto l’opportunità – come è loro diritto – di discuterne insieme al curante per arrivare ad una decisione consapevole e partecipata.

Molti genitori mi hanno riferito che la prescrizione di una procedura così invasiva e rischiosa è avvenuta in moltissimi casi senza che il PLS abbia visitato il bambino ma semplicemente basandosi su sintomi vaghi o clinicamente poco specifici riportati dalle madri; le quali nella maggior parte dei casi non le avrebbero neppure ritenute meritevoli di attenzione da parte del PLS e non le avrebbero neppure portate alla sua attenzione se non vi fossero state costrette dalla necessità di far rientrare il bambino a scuola, perché respinto dalla stessa sulla base del giudizio di personale privo di competenze e non qualificato a valutare i segni e i sintomi del bambino ed il loro significato.

Oltre a ciò che ho appena riportato, ho anche potuto constatare – con mio grande sconcerto – numerosi casi di prescrizioni di cui mi è stato veramente impossibile comprendere il razionale clinico.

L’esempio più eclatante è stato quello di un lattante di 40 giorni allattato al seno, senza alcun segno clinico, negativo agli screening neonatali, sano e con accrescimento regolare, il cui padre era tornato dalla Lombardia (senza alcun sintomo) dove si era recato per lavoro. La neomadre per scrupolo ha chiesto al PLS se fosse necessario adottare una qualche precauzione e il PLS ha indicato di fare il tampone a tutti e tre i membri della famiglia, incluso il piccolo lattante. 

Purtroppo, devo riferirle che di fronte a episodi, come questi, di assenza di una reale indicazione clinica per l’esame invasivo (episodi che tra l’altro corrono tra le famiglie col passaparola alla velocità della luce) le famiglie mi dicono sempre più spesso di essersi convinte che il vero motivo della prescrizione del tampone al loro figlio fosse stata solo la volontà del PLS di non correre rischi legali. Un PLS mio amico mi ha confidato che nel suo caso è proprio così: li prescrive perché “se poi succede qualcosa” non vuole passare guai. Questa è evidentemente pura e semplice medicina difensiva”.

 

Ora se ci sono dei rischi – e da quanto sopra esposto appare evidente che dei rischi ci sono – come possono i pediatri ‘nascondersi dietro la foglia di fico’ dei protocolli?

Un medico è tenuto ad obbedire a dei protocolli oppure, ancora prima, al codice deontologico della propria professione e alla propria coscienza? 

Onorando il sempre valido “Primum non nocere” di ippocratica memoria se, in scienza e coscienza, un pediatra ritiene che non vi sia un ragionevole motivo per fare il tampone o che il rischio sia troppo elevato rispetto al beneficio, perché non si rifiuta, certificando che il bambino non ne ha bisogno?

Non è lo stesso Codice di Deontologia Medica (all’articolo 4) che sancisce la libertà e indipendenza della professione e che obbliga ad esercitarla in autonomia di giudizio “senza sottostare a interessi, imposizioni o condizionamenti di qualsiasi natura”?

Un medico ha il diritto, ma anche il dovere, di valutare e decidere per il bene di ogni suo singolo paziente. Non può essere obbligato a prendere una decisione perché ‘costretto da un protocollo’. Nel momento in cui lo fa, vuol dire che quel protocollo lo condivide e lo approva e allora poi si dovrebbe assumere la responsabilità di eventuali conseguenze.

E poi cos’è un test? Dovrebbe essere qualcosa che aiuta un dottore a capire lo stato di salute dei suoi pazienti, non di certo qualcosa che gli si sostituisce imponendo una diagnosi anche al di là di evidenti contraddizioni cliniche.

È mai possibile che un medico possa avallare una diagnosi fatta da un dispositivo senza neanche vedere il paziente come troppo spesso sta accadendo?  Mi pare la fine della medicina clinica!

 

Concludendo urge – in questo momento storico più che mai – che sempre più medici si riapproprino dell’autonomia decisionale che compete alla loro categoria e alla loro dignità. Ma urge anche che le persone aprano gli occhi e diventino sempre di più parte attiva nel ricercare le informazioni utili alla loro salute, a maggior ragione se sono necessarie al fine di rilasciare un (reale) consenso informato.

Oltretutto, al di là dell’innegabile problema di eventuali eventi avversi associati all’esecuzione dei tamponi, c’è un’altra spinosa e determinante questione da considerare: l’attendibilità di questi test. Sono molte, infatti, le polemiche in merito e svariati esperti ne hanno ridimensionato notevolmente l’efficacia parlando di un’alta percentuale di ‘falsi negativi’ e ‘falsi positivi’ (eppure è su questi test che adesso si sta basando la politica sanitaria …).

Ora non starò qui ad elencare le varie dichiarazioni di virologi e infettivologi a riguardo. Sono facilmente rintracciabili in rete 

Invece qui vorrei condividere il bugiardino di un tampone (precisamente l’Xpert Xpress SARS-CoV-2) e consiglio, in particolare, di soffermarsi sul punto 3 e sul punto 11.

Con un’ultima domanda. Perché, tra l’altro, si legge: “In caso di malessere, contattare un CENTRO ANTIVELENI” ? Cosa stiamo permettendo di infilare nella nostra bocca e nel nostro naso e in quelli dei nostri figli?